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Summer Breeze 2009
Scritto da Heavy Under & Rick Hard   
Martedì 21 Dicembre 2010 14:09

SUMMER BREEZE 2009
( Dinkelsbühl
(GER) - 14-16 Agosto 2009 )

 

Ci sono svariati modi di organizzare un buon festival metal. E i tedeschi li conoscono tutti quanti.
Più frequento i festival d’oltre confine e più il confronto con quello che siamo soliti vedere da questa parte delle Alpi è impietoso.
Fra tutti i festival in terra di Germania, il Summer Breeze ha saputo ritagliarsi negli anni (l’edizione 2009 è stata la numero 12) uno spazio importante nel panorama degli open air europei.Nato ad Abtsgmünd nel 1997, dal 2006 il festival si tiene a Dinkelsbühl, una classica cittadina bavarese con un borgo antico tenuto in modo impeccabile e con la parte più nuova della cittadina che si estende ordinatamente nella bella campagna.

Un sogno di pace e tranquillità.

Ma ogni anno questa pace e tranquillità viene sconvolta dall’arrivo di decine di migliaia di magliette nere con nomi e disegni truci, fra lo sguardo curioso dei locali e quello… interessato di supermarket, discount e rivenditori di birra che in pochi giorni incrementano il loro comunque già succoso fatturato di alcuni zeri.

Il festival vero e proprio si svolge nei campi a qualche chilometro dalla cittadina ed è un vero e proprio modello di organizzazione. Tre palchi (main stage, pain stage ed una party tent che farebbe invidia anche al WET Stage del più famoso e quotato W:O:A), un buon numero di punti di ristoro (magari la qualità del cibo di alcuni non è un granché ma almeno la varietà è garantita) ed un fornitissimo metal market. Un numero enorme di volontari, disponibili e gentilissimi, garantisce il corretto funzionamento di tutte le aree e, visto che siamo ad un festival musicale la cosa non è sicuramente di importanza secondaria, una qualità dei suoni nettamente sopra la media (OK, qualche intoppo qua e là e poi resta da attribuire la paternità del disastroso inconveniente durante il concerto degli Opeth, ma globalmente la musica si è sentita decisamente bene durante tutti i concerti). Unico neo, almeno per noi che eravamo al Summer Breeze anche per fare un report per The Murder Inn, è stata la restrizione degli accrediti al recinto dei fotografi dalle 18 in avanti, che ha fortemente penalizzato la nostra possibilità di documentare il festival con delle immagini complete sui gruppi che si sono succeduti sui vari palchi.

Mercoledì 12 agosto.

Arriviamo all’Open Air intorno alle 20:30, giusto in tempo per farci la prima birra del festival (la prima…ehm…di svariate altre…), guardarci un po’ intorno, la prima sera ruota tutta intorno alla party tent mentre tutta l’area dei due palchi principali rimane ancora buia ed inaccessibile, e via che si parte con i Razor of Occam, band black/thrash anglo-australiana formata da un paio di membri (basso e chitarra/voce) dei Destroyer 666. Nei 45 minuti a disposizione il quartetto esegue buona parte del suo repertorio (un paio di EP ed un full-length) con pezzi che vivono di lunghe fasi strumentali molto ben suonate. Chiude la cover di Whiplash dei Metallica. Mentre il tendone si riempie all’inverosimile provocando un’escursione termica di almeno 15 gradi fra interno ed esterno, partono gli svedesi Vomitory con il loro death violentissimo senza la minima concessione alla melodia. Dalla reazione del pubblico sembra ci si trovi già di fronte agli headliner della serata e pezzi come “Terrorize, brutalize, sodomize” e “Chaos Fury” vengono salutati da urla belluine e sommovimenti delle prime 10 file sotto il palco. Alla fine dell’esibizione dei Vomitory decido di sacrificare il concerto dei Cataract per andare al parcheggio a recuperare dal baule una maglia (nonostante il calendario facesse pensare ad un caldo afoso, al tramonto la temperatura andava giù di brutto!), farmi un giro fra gli stand per adempiere al rito dell’acquisto della maglietta del festival e tornare in tempo per i Powerwolf che attaccavano alle 00:15, ignaro del fatto che l’organizzazione stava per giocarmi l’unico scherzo di cattivo gusto della quattro giorni bavarese: avendo registrato il ritardato arrivo dei Cataract, i simpatici organizzatori decidevano per l’inversione del loro concerto con quello dei God Dethroned, senza darne annuncio alcuno. Mi perdo così l’esibizione di una delle band che avevo evidenziato sul running order come “imperdibile”. Grunt!

Ed ecco i Powerwolf, prima band power del festival. Più presenza scenica che idee, ma il concerto scivola via piacevole, nonostante qualche problema ai suoni sul primo pezzo. Complice il tarantolato tastierista che saltella spesso e volentieri fuori dal suo angolino di palco, il pubblico si lascia di buon grado trascinare a cantare le hit del gruppo di casa, pur se con forti radici rumene. “Raise your fist, evangelist”, “We came to take your souls”, “In blood we trust”, “Werewolves of Armenia”, “Resurrection by erection” e “Saturday Satan” vengono tutte cantate a squarciagola dal numeroso pubblico che gremisce il tendone. Prima di chiudere con “Kiss of the cobra king” il truccatissimo cantante Attila Dorn si esibisce in una buffa giaculatoria con tanto di incenso fumante invitando il pubblico ad unirsi alle sue invocazioni affinché il Summer Breeze duri per altre 10, 15, 20 edizioni. Certo i Powerwolf non aggiungono nulla di nuovo alla storia del power metal teutonico, ma si fanno ascoltare volentieri e sono sufficientemente professionali da mettere in piedi uno show  piacevole e coinvolgente.

Tocca ai Cataract, gruppo metalcore svizzero, chiudere la prima serata del festival. Si scusano con il pubblico per il ritardato arrivo (e grazie al…, dovevano esserci i God Dethroned adesso!) ed attaccano i loro 50 minuti di fuoco. Essendo la prima volta che li vedevo dal vivo, non saprei dire se la rabbia messa sul palco è la loro solita oppure era in qualche modo acuita dall’inconveniente al tour bus che li ha fatti arrivare quasi fuori tempo massimo al festival, però a cominciare dal “paisà” Federico Carminitana per finire all’assatanato drummer Ricky Dürst, i 5 musicisti mettono su un muro di suono impressionante. E’ un vero peccato che a quel punto una buona metà del pubblico avesse già scelto la via del campeggio perché il concerto ne valeva veramente la pena.

Ore 02:00, anche se con l’amaro in bocca per essermi perso i God Dethroned, è arrivato il momento di andare a riposarsi dalle fatiche del viaggio.

 

Giovedì 13 agosto.

La giornata inizia sotto un diluvio universale che, grazie a…ehm…Odino, finisce giusto in tempo per l’inizio dei concerti. Dopo un pantagruelico pranzo al China Restaurant di Dinkelsbühl, che per l’occasione si lanciava in un’ardita e masochista iniziativa commerciale “all you can eat for 6,80 €” (e credo che dopo il nostro passaggio abbiano ben chiaro fino a dove “all you can eat” possa arrivare…), siamo sotto il Main Stage per fare “il ruttino” in compagnia dei Vader. Pur con meno tempo a disposizione di quanto avrebbe meritato (però al Summer Breeze i tempi risultano strettini per tutti: 75 minuti è il massimo messo a disposizione degli headliner) il quartetto polacco non delude il pubblico di aficionados e si rende protagonista di una delle migliori esibizioni del festival. Violento, sporco, maligno, il suono dei Vader bene si accompagna con le nuvole minacciose del cielo bavarese. Piotr Wiwczarek ruggisce rabbiosamente nel microfono e pezzi come “Sothis”, “Black to the blind”, “Epitaph” (che ci permette di assistere al primo wall of death del festival), “This is the war” ci confermano, anche se non ce n’è bisogno, che il quartetto polacco rimane uno dei nomi di punta del death metal europeo. La recente “Lead us!!!” chiude l’esibizione fra un uragano di applausi convinti.

Poco male, perché al Pain Stage ci aspettano gli svedesi Grand Magus, un altro gruppo di quelli segnati con l’evidenziatore sul running order. Li sentivo per la prima volta ed ero veramente curioso di verificare dal vivo la buona impressione avuta ascoltando il loro ultimo lavoro “Iron Will”. Devo ammettere di aver provato una grossa delusione perché i tre ragazzi di Stoccolma si sono resi protagonisti di un concerto incolore, molle, insipido. I brani estratti dall’ultimo disco “The shadow knows”, “Hövding”, “Iron will”, “I am the north” suonano piatti e senza grinta. A peggiorare il ritmo del concerto contribuisce una lunga pausa, riempita da uno stucchevole solo di basso, dovuta alla necessità di riaccordare la chitarra di JB Christofferson. Il pezzo di chiusura, “Kingslayer”, unico momento coinvolgente dell’intero concerto, viene introdotto da una curiosa (anche se più che condivisibile) filippica contro la casa reale svedese (finalmente uno sfoggio di attributi sul palco!). Intendiamoci, a livello di tecnica si tratta di un gruppo molto valido, ma all’esibizione del Summer Breeze è mancata completamente la profondità che il loro genere musicale, molto influenzato dal doom metal, richiederebbe. Insomma: una delusione. E purtroppo anche arrivata nel momento sbagliato perché il programma del pomeriggio è da sbadiglio, o meglio, è da sbadiglio per chiunque sia nato al di fuori della grande Germania. E si, perché sul Main Stage si succedono prima gli Unheilig, un gruppo che alterna pop, easy listening e una roba che assomiglia moltissimo alla disco music, il cui cantante è una sorta di Mago Berry in giacca e cravatta, e poi i J.B.O., ineffabili capiscuola dello “Spaß Metal” (in italiano “metal-divertimento”) che tanto piace da queste parti, più o meno una roba demenziale dove si cantano canzoncine stupide e solo vagamente metalliche in stile karaoke, si balla e si beve come delle spugne. Passi per il bere come delle spugne, ma questo sarebbe, ehm, un festival metal… Eppure la folla sotto il palco è notevole, compatta e partecipa con trasporto all’esibizione dei nostri vestiti tutti di rosa (appunto…!), insomma: o ci sbagliamo noi o si sbagliano loro.

Per rifarmi le orecchie da tanto scempio melodico mi butto sotto la Party Tent dove i Beneath the Massacre stanno infierendo sui timpani dei 4/500 temerari che hanno preferito il brutal death dei quattro canadesi alle canzonette dei J.B.O. Non conoscevo questo gruppo che ha alle spalle solamente un paio di recenti dischi. Purtroppo posso permettermi solo un quarto d’ora di presenza perché all’orizzonte del Pain Stage si profilano i Walls of Jericho, un altro dei gruppi che attendevo con curiosità. Una curiosità ripagata con uno dei concerti più belli di tutto il festival. Arrivo di corsa dalla Party Tent mentre il gruppo di Detroit sta iniziando e mi ci vogliono meno di 60 secondi per capire che questi hanno il peperoncino nel culo! Non conosco nulla della loro musica ma mi piace tutto subito. La cantante Candace Kucsulain è una front woman come se ne vedono poche nel panorama metal mondiale. Una vera Phil Anselmo in gonnella (se ne indossasse una…)! Ha letteralmente il pubblico in mano dopo tre pezzi. E’ un vero spettacolo nello spettacolo! I circle pit non si contano più, costantemente incitati dalla singer risalgono dalle prime file fino al fondo del prato. Le prime file si dividono in due muri che si schiantano violentemente uno contro l’altro per poi riprendere da dove avevano lasciato. Per l’ultimo pezzo, “Revival never goes out of style”, il bassista Aaron Ruby si lancia in un body surfing senza però abbandonare lo strumento e distribuendo colpi di basso a destra e a manca sui malcapitati delle prime file. Dopo tanta aggressione sonora i J.B.O. sembrano solo più un lontano ricordo…

Solo 5 minuti per riprenderci e pochi metri più in là Mille Petrozza e i suoi Kreator sono già pronti per il loro show. Parte subito “Hordes of chaos” giusto nel caso qualcuno non sapesse che c’è un nuovo lavoro Made in Kreator negli scaffali dei negozi, ma lo spazio dedicato al nuovo disco si limita alla title-track e a “Destroy what destroys you”, anche perché sono troppi i classici della band da inserire nella scaletta di 75 minuti di puro old-school thrash: “Pleasure to kill”, “Phobia”, “Violent revolution”, “Extreme aggressions”, “Warcurse”, “Terrible certainty”, “Coma of souls”, l’acclamatissima “Flag of hate”, i Kreator vanno a pescare i classici da praticamente tutti i dischi della loro gloriosa storia, trasformando lo show in un vero e proprio greatest hits. Un’arringa un po’ sconclusionata contro le religioni e sul dovere di non seguirne nessuna “come molti bavaresi” introduce “Enemy of God”. Tra i boati dei 30-e-passa-mila fans chiude “Tormentor” con Petrozza che non ha praticamente più voce (se volessimo trovare un difetto ad uno show quasi perfetto, diremmo che la voce ha sicuramente perso qualcosa).

Visto che il programma “alla tedesca” ci propone i Cantus Buranus di cui, senza offesa, facciamo anche a meno, ci buttiamo sul chiosco della Weizen per riprendere un po’ di tono post-Kreator. Uno sguardo sotto la Party Tent per fare conoscenza con i blast beat indiavolati dei Misery Index, band grind americana e poi ci spostiamo verso il Pain Stage dove i Katatonia stanno iniziando la loro esibizione. Ostentatamente melanconici, lenti e senza verve, i Katatonia deludono parecchio. Resisto per non più di 5 o 6 pezzi e poi decido di non sprecare altro tempo e andare a sentire almeno il finale del concerto degli Hate Eternal. Riesco infatti a sentire almeno gli ultimi tre pezzi proposti dalla band death americana, giusto per dire “io c’ero”.

In chiusura di giornata è tempo per i Suffocation. Lo scorso anno erano venuti a suonare a due passi da casa mia ma per un impegno non avevo potuto andarli a sentire; stasera recupero con gli interessi. 45 minuti di vero death metal brutale, suonato magistralmente e con un tiro indescrivibile. Largo spazio viene lasciato all’ultimo lavoro “Blood Oath”  con la title-track, “Cataclysmic purification” e “Come hell or high priest”, senza però dimenticare dei classici come “Infecting the crypts” o “Catatonia” (oops, ironia, visto l’abulico concerto di un paio d’ore prima…). Giù il cappello davanti alla storia del death metal!

 

Venerdì 14 agosto.

Il running order del venerdì vedeva tre gruppi evidenziati: Amon Amarth, Cynic e Entombed. Per il resto questa era la giornata delle sorprese: tanti gruppi mai sentiti dal vivo. Primo slot all’interno della Party Tent riservato ai suoni power epici dei Sacred Steel. Il gruppo di Ludwigsburg conta una base di fan fedelissima che affolla il tendone e canta tutto quanto a memoria. Classicissimo power metal tedesco con canzoni tutte molto orecchiabili e strutturate nello stesso modo, ma non è poi esattamente quello che i fan di questo genere vogliono? “Heavy metal to the end”, “Metal is war”, “Blood on my steel”, “Battle angel” e l’anthemica e conclusiva “Wargods of metal”, già dai titoli delle canzoni si capisce subito che si tratta di defender del genere. Non chiediamo niente di meglio per calarci subito nell’atmosfera giusta per una lunga giornata di metal! La giornata è soleggiata e la temperatura volge subito alla caldazza. Di colpo la Party Tent ci sembra meno attraente del giorno prima…ma fino alle 17:25, ora d’inizio degli Entombed, questa sarà la nostra posizione. Dopo i Sacred Steel salgono sul palco i lettoni Skyforger con il loro pagan folk cantato in lingua locale. Qui nessuno canta (beh!), però il coinvolgimento del pubblico è ugualmente altissimo. I sei pezzi eseguiti nei 30 minuti a disposizione dei 5 aedi lettoni (di cui non riporterò i titoli perché le lingue baltiche non sono esattamente il mio forte…) sono più che sufficienti a dare un giudizio molto più che positivo sull’esibizione degli Skyforger, che lasciano il palco fra gli applausi convinti del Summer Breeze. E qui, meine Damen und Herren, facciamo la conoscenza di una delle più grosse sorprese positive del festival: i tedeschi Black Messiah. Sei barbari in tenuta da battaglia con un repertorio di folk metal da far invidia ai maestri del genere. ‘Drink music’ allo stato puro! La Party Tent è stipata all’inverosimile e fa un caldo senza senso. Tutti sanno tutti i testi a memoria (i Black Messiah scrivono i loro testi sia in inglese che in tedesco, ma per questa esibizione in terra natìa privilegiano le canzoni nella lingua di Goethe) e li cantano a squarciagola. Perfino io rispolvero il mio tedesco arrugginito per star dietro all’indiavolata “Moskau” che chiude il concerto. Che roba! Mentre mi muovo verso il Pain Stage dove mi aspettano gli Entombed non posso fare a meno di continuare a canticchiare una canzone che fino a pochi minuti prima nemmeno conoscevo (“Moskau, Moskau, wirf die Gläser an die Wand, Rußland ist ein schönes Land, ho, ho, ho, ho, ho! Hey!” da non crederci!). Arrivo a concerto degli Entombed già iniziato e sento solo la parte finale di “Serpent saints”, title-track dell’ultimo lavoro dei quattro svedesi, oggi orfani di Nico Elgstrand tornato in Svezia per assistere alla nascita del figlio e sostituito al basso, e molto bene, da Victor Bland (non giurerei sullo spelling del cognome) il quale, parole del front man LG Petrov, “ha dovuto impararsi la setlist in un giorno”. Se così fosse veramente…chapeau al session man! Nei 45 minuti a disposizione gli Entombed vanno principalmente a pescare da tre album, oltre al nuovo lavoro del quale eseguono anche “When in Sodom”, “In the blood”, e la conclusiva “Masters of death”, la scaletta prevede quattro pezzi da “Wolverine Blues” (la title-track, “Demon”, “Eyemaster” e “Out of hand”) e due da “Morning star” (“Eye for an eye” e “Chief rebel angel”). Un po’ di delusione per chi sperava in qualche pezzo da “Left hand path”, ma una gran bella esibizione, soprattutto considerando i problemi di line-up dovuti all’assenza del bassista “titolare”. Restiamo dalle parti del Pain Stage perché di lì a poco sarebbero saliti sulle assi del Summer Breeze gli svedesi Sabaton, altro gruppo da non perdere per i die-hard fans del power. Chiudendo gli occhi uno potrebbe confonderli con gli Hammerfall per i suoni molto simili a quelli dei più famosi compatrioti. Canzoni con ritornelli molto catchy tipo “Attero Dominatus”, “Panzer Battalion” e “Primo Victoria” che catturano bene il pubblico. Durante “Cliffs of Gallipoli” sono costretti ad una piccola pausa per un inconveniente ad una chitarra che richiede il tempestivo intervento dei tecnici. Chiude il più che discreto concerto un medley fra i due classici “Metal Crue” e “Metal Machine”, nel saltellamento generale incitato dal singer Joakim Broden.

Rispetto al programma un po’ deludente del pomeriggio precedente oggi si respira tutta un’altra aria al festival. E la sera promette nuove emozioni soprattutto per merito dei Cynic, i quali si presentano alle 21:00 spaccate sul palco della Party Tent. Vi sono due correnti del metal attuale che sono sovente criticate dagli headbangers più incalliti come indegne della ribalta dei festival: il symphonic- ed il prog-metal. I Cynic ormai, soprattutto dopo l’uscita di un capolavoro quale “Traced in air” appartengono a pieno titolo al movimento progressive. Arrivo al tendone, che oggi mi ha già regalato un buon numero di soddisfazioni musicali, mentre il quartetto americano si monta il palco per conto proprio e si fa il sound-check. Dal sound-check si passa, senza pause, al concerto vero e proprio: introdotto dalla voce di Paul Masvidal “we want you to relax and surrender to the music”. Un’esperienza onirica lunga 40 minuti iniziata con “Nunc Fluens” e incentrata quasi  completamente sull’ultimo lavoro, con solamente “Veil of Maya”, “Celestial voyage” e la conclusiva “How could I” tratte dal precedente “Focus”. Con il loro approccio soft, di basso profilo e totalmente focalizzato sulla musica, i quattro extraterrestri dimostrano come saper suonare bene al giorno d’oggi voglia ancora dire qualcosa. Paradossalmente la Party Tent da una dimensione intima al concerto che un grande stage non avrebbe saputo dare (basti confrontare l’esibizione di questa sera con quella al nostrano Gods of Metal per vedere la differenza). Paul Masvidal ogni tanto cerca un po’ di dialogo con il pubblico ma il poco tempo a disposizione spinge a tagliar corto con le parole e darci dentro con la musica. E così volano via, oltre ai pezzi già citati, “The space for this”, “Evolutionary sleeper”, “Adam’s murmur”, “King of those who know” e “Integral birth”. Chissà se avremo mai queste atmosfere celestiali catturate in un live?

Giusto il tempo per riprenderci da questa overdose di suoni da un’altra dimensione e ci tocca tuffarci in mezzo alla folla in attesa dell’arrivo degli Amon Amarth. Dico folla non a caso perché ci sono veramente tutti ad attendere il quintetto vikingo per eccellenza. Il cielo presenta una stellata favolosa (nordica…appunto) mentre esplode “Twilight of the thunder god”. All’ultimo lavoro made in Amon Amarth viene riservato uno spazio speciale nella scaletta: oltre all’opener vengono eseguiti “Free will sacrifice”, “Varyags of Miklagaard”, “Guardians of Asgaard” e “Live for the kill”. Dopo qualche problema iniziale alle chitarre, il suono finalmente si stabilizza su livelli eccellenti ed evidenzia lo stato di grazia della band che in pochi anni è arrivata ad occupare una posizione di primaria importanza nell’Olimpo del metal mondiale. I cinque musicisti suonano ormai come fossero uno strumento solo e pezzi quali “Fate of Norns”, “Runes to my memory” e “Cry of the blackbirds” vengono fuori praticamente con la stessa perfezione del disco. Sul palco viene fatto largo uso di giochi pirotecnici ad iniziare da “Asator” per arrivare alla conclusiva “Death by fire”. Ormai non c’è più da stupirsi perché gli Amon Amarth dal vivo sono una macchina da guerra perfetta in ogni suo aspetto. Oggi come oggi è veramente difficile trovare di meglio dal vivo.

 

Sabato 15 agosto.

Ferragosto metal all’insegna di un sole cocente! Il programma oggi alla voce “colazione” dice: weiß Wurst con Brezeln e Kren, il tutto annaffiato dalla Pilsner locale. E siamo pronti per affrontare i Grave al Main Stage. Canti sacri, tuoni e fulmini introducono “Deformed” che apre una sorta di tributo al primi due album della loro carriera “Into the Grave” e “You’ll never see”, dimenticando completamente l’ultima release “Dominion VIII” come qualsiasi altro album post-reunion. I violentissimi riff di “Obscure infinity”, “Into the Grave”, “You’ll never see”, “Morbid way to die” e “Christi(ns)anity” si succedono senza sosta facendoci capire la ragione per la quale abbiamo un collo… L’unico pezzo non tratto dai primi due lavori, “Soulless” chiude un gran concerto di death metal. Sarà difficile trovare di meglio oggi, anche se siamo solo all’inizio. Ed infatti, con una mancanza di sensibilità pazzesca per le nostre povere orecchie, sul Pain Stage si presentano i Krypteria, band tedesca etichettata come Gothic/Power ma che si rivelerà solamente un banale gruppo pop come ultimamente ne vediamo troppi nei festival metal. La cantante di origine orientale si presenta in abito da sposa (!) per poi rimanere in abito di pelle con un ardito strip. Gimmick di questo tipo ti fanno immediatamente pensare che di idee musicali ne sentirai poche. E infatti resisto per un massimo di 4 canzoni e poi saluto tutti e vado a ripararmi dal sole cocente. Prossimo nome sul running order: Born from Pain autori di un classico hardcore con qualche sonorità thrash, che sembra fatto apposta per generare fra il pubblico circle pit di tutti i diametri. E’ dura farsi notare suonando questo tipo di musica perché tutti i gruppi tendono un po’ ad omologarsi sugli stilemi del genere. I nostri cinque olandesi sono comunque bravini ed il concerto scivola via in 45 minuti piuttosto piacevoli.

Nel nostro ping-pong fra i due palchi centrali tocca ora ad un altro gruppo olandese: gli Epica. Anche gli Epica scelgono di trascurare il loro ultimo lavoro “Design your Universe” per proporre nel poco tempo a disposizione alcuni cavalli di battaglia dal recente passato. Si inizia con “Indigo” che fa da intro a “Obsessive devotion”, seguita poi da “Sensorium” e “Menace of vanity”. Come vuole l’ABC del metal sinfonico la voce operistica di Simone Simons duetta splendidamente con il cantato in stile death metal del chitarrista Mark Jansen, creando un contrasto molto particolare, anche se ogni tanto mostra qualche segno di cedimento. La graziosa olandesina riesce a ritrovare slancio e tonalità in linea con la sua fama per il trittico finale “Cry of the moon”, “Sancta terra” e “Consign to oblivion” che chiude l’applauditissima esibizione. Giusto due parole per liquidare il concerto dei Brainstorm come di gran lunga il peggiore di tutto il festival. Né carne né pesce, molle, scontato, senza idee. Non credo valga nemmeno la pena di essere commentato. Perfino i tedeschi, che sono soliti coccolare le loro band locali, non se li filano più di tanto.

Alle 18:15 salgono sul main stage i portoghesi Moonspell mentre si vedono qua e là alcuni cittadini di Dinkelsbühl in visita al festival. Si distinguono per come sono vestiti e per come guardano con curiosità la variegata fauna all’interno della festival area. Il tenebroso frontman Fernando Ribeiro attira su di se tutti gli sguardi nonostante le sue movenze un po’ goffe, ogni tanto ricorda il Blaze Bailey dei Maiden. Il concerto inizialmente stenta a decollare e Ribeiro non ci pensa due volte a farlo notare: “Avete caldo? Per noi questo non è caldo. Noi veniamo dall’Africa”.  Poi, finalmente, sospinto dalla doppia cassa di “Moon in Mercury” tratto dall’ultimo disco “Night eternal” band e pubblico entrano in sintonia e di lì viene fuori una cavalcata attraverso “Opium”, “Scorpion flower”, l’onirica “Vampiria”, “Alma Mater” e “Full moon madness” che chiude una buona esibizione, anche se onestamente mi aspettavo qualcosa di meglio. Il terzo gruppo olandese della giornata, i Legion of the Damned, si presenta con un palco piuttosto esplicito che mostra due-crocifissi-due fra le colonne di quello che sembra essere un tempio. La band, che affonda le sue origini nel thrash/death in stile Slayer o primissimi Sepultura (mi si perdoni il paragone irriverente), si affida alle sue armi migliori: riff violenti ed ossessivi, che sanno però di già visto e già sentito. I 50 minuti a loro riservati scorrono via senza infamia e senza lode. Gli incombenti show di Voivod e Opeth mi costringono a saltare i Volbeat, che ascolto da lontano mentre aggredisco un salsiccione grigliato di dimensioni spropositate. Ore 21:35 salgono sul Pain stage i Voivod. Si vedono un paio di bandiere del Quebec sventolare mentre i quattro canadesi attaccano l’opener “Voivod”; alla chitarra, ‘replacing the irreplaceable’ come puntualizzerà più tardi Snake Belanger, troviamo Daniel Mongrain tour musician destinato però a sostituire lo scomparso Piggy D’Amour in pianta stabile nel gruppo. Dal punto di vista dell’esibizione live l’esame è più che superato; resterà da vedere il contributo creativo in studio, ma questo è un altro discorso. Si vede che sul palco c’è voglia di suonare e abbiamo più di un sospetto che Blacky Theriault stia suonando il suo basso in stato di evidente ebbrezza. L’astronave canadese ci porta a spasso attraverso la storia del gruppo: “The unknown knows”, “Ravenous Medicine”, “Tribal conviction”, “Overreaction”, “Panorama” fino a “Global warning” dal nuovo disco “Infinit”, ultimo tratto da idee registrate dallo scomparso chitarrista. Tecnicamente il concerto è tutt’altro che esente da pecche: Belanger non ha più la voce di un tempo ma sa benissimo come tenere in pugno il pubblico (che per l’occasione poteva anche essere più numeroso: classico caso in cui gli assenti hanno avuto torto) e Michel Langevin va un paio di volte fuori tempo con la batteria, ma questi sono discorsi da loggione della Scala, dove per una stecca si stronca la carriera di un tenore; ciò che è importante è il tiro con il quale i quattro musicisti trascinano il pubblico in uno splendidio happening metal! “Brain scan”, “Tornado”, “Nothing face” e “Nuclear war” si succedono separate solo da quanto basta per far rifiatare the Snake. La chiusura, immancabilmente dedicata a Piggy D’Amour (con un lungo coro “Piggy! Piggy!” del Summer Breeze) e riservata alla cover dei Pink Floyd “Astronomy Domine”. Resto giusto il tempo per tributare i meritatissimi applausi finali ai Voivod e poi via verso l’ultimo headliner del festival: gli Opeth. Al povero gruppo death-prog svedese succede letteralmente di tutto. Fin dall’opener “Heir apparent” si nota lo smarrimento sul palco. Si ha la chiara impressione che i suoni non arrivino alle orecchie dei musicisti e che la chitarra di Frederik Åkesson non funzioni per nulla. Il giorno dopo il concerto gli Opeth rilasceranno un comunicato nel quale descriveranno quanto successo come “The single most embarassing show we’ve done with this lineup so far”, che è tutto dire… Dopo “Soldier of fortune” tenuta insieme con i denti ed una a tratti irriconoscibile “Ghost of perdition” il gruppo decide di fermarsi ai box. L’attesa per l’intervento tecnico è riempita da una jam di sintetizzatore che mi riporta a certi intermezzi musicali durante ai concerti della PFM. Con “Harvest” Mikael Åkerfeldt chiede al pubblico di cantare insieme a lui ma senza ottenere alcuna reazione se non un gelo imbarazzante. Tradendo un notevole nervosismo, riesce perfino a dire con un sorriso stiracchiato “by the way, the name of this band is Opeth”. I 30.000 e più spettatori accordano al gruppo una pazienza infinita e vengono comunque ripagati con una seconda parte dello show tutto sommato accettabile, viste le disastrose premesse: “The leper affinity”, “Closure”, “The lotus eater”, “Demon of the fall” e “The drapery falls” che chiude l’incubo per i cinque malcapitati svedesi, a cui va dato credito per l’enorme professionalità dimostrata nel voler rimettere in piedi a tutti i costi uno show nato male.

Le ultime note del Summer Breeze 2009 sono affidate ad un gruppo emergente tedesco: i Secrets of the Moon. Non conoscendo questo gruppo l’avevo etichettato sulle mie note semplicemente come ‘black metal’, e sinceramente mi aspettavo di trovare il classico gruppo black: face painting, batteria spinta a velocità impossibili, ruggiti infernali. E soprattutto mai mi sarei aspettato di trovarmi davanti ad una delle più belle esibizioni del festival! I tre musicisti suonano nella penombra più totale, tanto che solo verso la fine del concerto mi accorgo che il bassista è una ragazza. Luci rosse puntate sul pubblico ed un’atmosfera ipnotica semplicemente favolosa. Setlist incentrata sull’ultimo lavoro “Privilegium” (parola che compare sui quattro drappi che compongono la scarna scenografia) che nessuno ha ancora ascoltato e di conseguenza l’esecuzione dei brani avviene nel silenzio più totale, sinonimo di estrema attenzione e non di disinteresse, conferendo al concerto un’aura sempre più magica. Solo per la conclusiva “Lucifer speaks” il pubblico esce dall’incantesimo e mostra una qualche reazione viva. Su quest’ultima canzone si chiude il nostro Summer Breeze 2009, quattro giorni di peace, beer and metal da ripetere al più presto possibile. Fra soli 365 giorni…