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Pantera - The Great Southern Trendkill (20 anni dopo)
Scritto da Stefano   
Domenica 27 Novembre 2016 10:44

Questo album lo presi appena uscì, perché sopra c’era scritto Pantera.
Probabilmente non lo comprai neanche io, me lo comprò qualcuno, perché era ovvio che io dovessi avere il nuovo dei Pantera. Quando premetti Play venni spettinato dall’urlo iniziale, ma questo non bastò a convincermi del tutto. Sì c’erano i pezzi, c’era la violenza ma non mi prese completamente. Lo riscoprii più avanti, riascoltandolo in età più matura, perché riuscii a cogliere sfumature che a 16 anni non ero in grado di capire. Il disagio. La chiave di lettura di questo disco è il disagio, una band all’apice della sua carriera ma già distrutta, con più problemi da risolvere che frecce nel suo arco, ma con tanto talento e tanta rabbia. Ecco, se si ascolta questo disco con questo ben presente in testa risaltano fuori delle ottime canzoni, anzi direi che questo disco andrebbe ascoltato non come un insieme di canzoni ma come un opera unica, un’unica sinfonia, un’unica colonna sonora del disagio.
[Skan]

Quando sento “The Great Southern Trendkill” mi vengono in mente alcune immagini:
– una macchina, un’utilitaria da città, mediamente sporca, con i finestrini abbassati e le casse che ronzano e gracchiano mentre l’urlo iniziale risuona nel vicoletto disturbando vicinato e presenti.
– girare in città senza aver il fisico statuario, e con un vago retrogusto di sudore sulla pelle, ma orgoglioso e con palle e cazzo ben in vista per il pubblico.
– vantarsi con i colleghi di degustare vino e birra di qualità e poi trovarsi, soli e incarogniti, al banco del bar con un Corea [mefitica mistura di Coca Cola e vino demmerda] in mano.
Perché a partire dalla piallata d’orecchie che ti arriva con la title track fino alla conclusiva (Reprise) Sandblasted Skin, TGST è un grido di gola, ma che parte in fondo alle viscere, dove la merda regna sovrana. TGST parla di quello: di disagio, di merda, di paura e di dipendenza. Più disperato e viscerale di Dirt degli Alice in Chains (del 1992 – altro testamento, in presa diretta, di un drogato all’ultimo stadio), TGST fa l’equivalente dello spurgo delle fogne: tira fuori tutto e te lo spara in faccia. Olezzo compreso.
La band è allo sfascio e non si incontra per registrare il disco, Seth Putnam, ospite d’eccezione, grida come un uomo a cui hanno sgozzano un suino e glielo hanno ficcato in gola e i riff sono pesanti e lerci.
Phil, beh, parla di morte, droga e disperazione.
Ecco perché The Great Southern Trendkill non invecchia: è talmente primitivo che ti scuote le viscere.
[Zeus]